“Quella volta che incontrai uno straniero alto e bruno!” – Terza puntata – “Il Gruppo si allarga”

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Un rumore assordante, contornato da un tremendo odore di bruciato, interruppe il nostro idillio. Oh no! Era esplosa la caffettiera! Ritornando indietro, tipo rewind su un dvd, mi rividi intenta a preparare il caffè. Ma in quell’immagine c’era un particolare che mi sfuggiva, qualcosa di stonato. Certo! Ma che deficiente! In preda ai palpiti mi ero dimenticata di metterci l’acqua.
“Aaah!”, urlai avvinghiandomi a lui.
“Aaah!” fece lui di rimando. “Ma che è stato?”, chiese un po’ agitato, visto che non aveva una chiara visuale sulla cucina. Notavo intanto come la sua forte stretta non mi mollasse neanche per un secondo. Come mi sarebbe piaciuto poter dire qualcosa, tipo Rossella ‘O Hara, “Rett, stringimi, sono i cannoni dei nordisti …” e aspettare che mi baciasse, con l’incendio di Atlanta sullo sfondo. Invece dissi “È…è stata la caffettiera…Io…credo di essermi dimenticata di metterci l’acqua dentro ed è…”
“Esplosa” concluse lui per me. Si staccò da me per andare a controllare lo scempio alle mie spalle. Degno finale. D’altronde anche Rett Butler aveva mollato Rossella da sola con Melania incinta, per andare tardivamente ad arruolarsi.
“Ehi, il fornello è ancora acceso” disse, prendendo in mano con decisione la situazione. Lo spense, prese uno straccio e dello Scottex e iniziò a ripulire tutto con una precisione incredibile. Trovò i pezzi sparsi dell’ordigno e li buttò nella spazzatura. Io lo guardavo incantata. Era proprio come se fosse a casa sua. Che era mia, quindi…
“Quindi hai fatto proprio la figura dell’idiota” mi fece eco nella testa la vocina cattiva. Veramente? Che orrore. Forse era vero ma la verità era che non me ne importava proprio un bel niente. Guardavo Francesco e mi sembrava che appartenesse a quella casa da sempre.
“Tutto è bene quel che finisce bene!” esclamai. Ma ero ben lungi dall’essere sicura che quel week end sarebbe finito bene. E, se sì, per chi sarebbe finito bene? Francesco doveva aver visto un lampo allarmato nel mio sguardo.
“Che succede? Tutto ok?”
“Si!”
Mi ripresi con decisione e, sempre per prendere tempo, presi una nuova caffettiera, gli schiacciai l’occhiolino con sguardo d’intesa mentre versavo dentro l’acqua e rimisi il caffè sul fuoco.
A quanto pare mio fratello – bontà sua – ci avrebbe portato in barca.
Era frustrante avere una barca e non poterla usare a mio piacimento. Purtroppo dovevo dipendere dai miei fratelli. Che strazio! Lo so, lo so, nessuno mi aveva mai impedito di prendere la patente nautica. Avrei potuto benissimo prenderla, ben inteso, ma ci sono dei momenti cruciali, in cui si prendono delle decisioni importanti che possono condizionare il tuo futuro. Così, in un momento “x” della mia vita, abdicai per sempre al ruolo del capitano per abbracciare quello del passeggero. Il che, aveva dei notevoli lati positivi ma comportava anche il fatto di dover stare all’asciutto in una pazzesca giornata di sole, come quella di quel giorno, a meno che, un patentato di buon cuore, mosso a pietà, non avesse deciso di portarmi. E così fu. Per l’appunto, il patentato in questione, mio fratello Giovanni, stava varcando il cancelletto del giardino seguito da Renzo, il mio socio di Roma, Bibi e Vanni, una coppia di nostri vecchi amici e da Marta, la sua dolce metà. Ma dov’era Giacomo? Ah sì, stava arrivando anche lui, un po’ scostato dal gruppo.
“Ah, che bella giornata!”, esclamò Renzo entrando e appoggiando un vassoio di paste e croissant sul tavolo. Poi, guardando dalla mia parte, lo vidi sospirare con aria sognante. Avevo già capito tutto. Renzo era il mio amico gay, nonché mio socio dell’agenzia di organizzazione eventi che avevamo a Roma, la B&B Associati, che stava, non per bed & breakfast, ma per Brand & Business. Sospirava, naturalmente, non alla mia vista ma a quella di Francesco che era vicino a me sulla portafinestra della cucina tenendomi la mano intorno alla vita.
La mano intorno alla vitaaa? Ma che caspita..!
Giacomo stava entrando a sua volta. Feci appena in tempo a schizzare verso il tavolo e ad afferrare il vassoio delle brioches con la scusa di offrirle. Naturalmente, con grande coda di paglia, mi diressi subito da Giacomo. “Brioche? Il caffè è quasi pronto!”
Giacomo, che, lo notavo solo allora, aveva le mani piene di oggetti che avevano riportato dalla barca, mi diede un’occhiataccia.
“Non adesso. Ma non vedi che ho le mani impegnate? Dai spostati!”, e senza degnare di un’occhiata il vassoio mi scansò per andare verso la casetta degli attrezzi. Ci rimasi male. In più avevo la brutta sensazione di strafare. Il mio stato d’agitazione e il mio senso di colpa erano così evidenti come me li sentivo io? “Avrei dovuto dire “brioche, amore?”! Uffa, l’ho rifatto!” pensai con sconforto. Ma perché ero così debole? Dovevo assolutamente far arrivare a Francesco il messaggio che Giacomo era il mio fidanzato. Ogni secondo che passava non faceva che aggravare la mia situazione. Francesco aveva già la mano intorno alla mia vita. Se non gli avessi detto come stavano le cose, la mia posizione, quando l’avesse scoperto – perché l’avrebbe scoperto! – sarebbe stata quanto meno equivoca.
“Intanto pensiamo alla colazione. Una cosa per volta.”
Giacomo era impegnato a sistemare quello che aveva portato nella casetta degli attrezzi così io avevo qualche attimo di respiro. Non è che dovessi dirlo subito, no? Così, tornai in cucina e portai fuori caffè, tazzine, zucchero e quant’altro servisse per la colazione. Cercavo di non guardare mai troppo Francesco per paura che qualcuno si potesse accorgere di quello che mi stava succedendo. Lui si era seduto e chiacchierava amabilmente con tutti.
“Mamma mia!”
Renzo mi aveva raggiunta in cucina mentre stavo preparando una nuova caffettiera. “Hai visto? Dico, hai visto?”
Dava l’impressione che gli occhi gli stessero per schizzare fuori dalle orbite. Era chiaro che alludesse all’ospite inatteso. Non riusciva a non ridacchiare. Sicuramente per il nervoso.
“Cosa?” gli risposi con aria innocente mentre mettevo di nuovo la caffettiera sul fuoco.
“Mi chiedi cosa? Proprio tu?” disse mentre mi fissava incredulo. “Lindarè…ma famm’ ‘o piacere..!”
Renzo era di Napoli e nei momenti di coinvolgimento emotivo non riusciva a trattenere le tipiche espressioni dialettali che a me facevano molto ridere. Le diceva con una tale enfasi!
“Si, non male…” dissi per accontentarlo. “Ti piace?” gli chiesi.
“A me si” sospirò Renzo, “ma il mio sesto senso mi dice che purtroppo lui non è dello stesso avviso”.
“Mi sa tanto di no” risposi, e gli feci un occhiolino d’intesa.
Io e Renzo ci conoscevamo ormai da tanti anni e di me sapeva quasi tutto. Diciamo che era uno dei miei confidenti preferiti. Fare finta di niente con lui era perfettamente inutile.
“Taci che mi è sceso un colpo quando sono scesa giù e me lo sono trovato davanti!” gli confessai abbassando la voce.
“E ti credo!”, non poté fare a meno di dire.
“Comunque anche a lui la sottoscritta non dispiace… Ma che non te ne esca niente con nessuno eh? Con nessuno, capito?”.
“Lindarè, non ti preoccupare. Stai in una botte di ferro. Ma racconta, dai, dimmi, dimmi…”.
“Che state confabulando voi due? Cos’è che non deve dire Renzo?”
La voce distaccata e sarcastica mi arrivò come una pugnalata alle spalle. Ci girammo e sulla porta della cucina Giacomo mi stava fissando con aria gelida.

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